Paola Scaccabarozzi, giornalista professionista e appassionata di culture antiche, condivide con noi il racconto della sua esperienza in Pakistan del Sud insieme a Viaggitribali, dal 3 al 17 novembre 2024. Un viaggio che l'ha portata alla scoperta di "un Paese pazzesco, dove gli esseri umani hanno raccontato meglio sé stessi sin da tempi lontanissimi".


L’acqua racconta sempre storie importanti. Permea la nascita delle civiltà, narra di imperi, di agricoltura e di epoche lontanissime. È testimone di conflitti, di religioni e di un’Umanità varia che si è susseguita nel corso dei secoli.
E quando l’acqua è il Fiume per antonomasia, l’”indomito Sindhu” per i sacerdoti sanscriti, l’Indo per tutti noi, il territorio che le sta intorno è un viaggio talmente attraente e ricco da meritare infiniti ritorni e approfondimenti.
Così è nato il mio desiderio di visitare quel luogo antico, di conoscere quel pezzo di terra che fu la patria vera dell’Induismo e di civiltà vallinde, misteriosamente scomparse.
Il Pakistan, che sulla carta geografica sta oltre l’Asia centrale e prima dell’India, mi affascinava da tempo.
Io che tendenzialmente viaggio da sola, per lavoro o diletto, decido però di affrontare un viaggio di gruppo quando di mezzo ci sono visti, scorte, permessi, oppure quando il tempo non è molto per avere almeno un’iniziale panoramica del Paese.
Così mi sono affidata all’organizzazione di ViaggiTribali. E quella che segue è la narrazione di qualche momento saliente di un viaggio densissimo che meriterebbe una trattazione ben più articolata, perché il Pakistan è un Paese pazzesco.
Tra wrestler millenari e tribune di confine: l'allegro caos di Lahore
Lahore è la prima tappa. È dove atterra il nostro volo che ha fatto scalo a Istanbul. Lahore sa di India. È l’allegro, delirante e divertente caos di ciò che sta poco al di là del confine e il confine è vicino, vicinissimo.
Siamo nella regione del Punjab pakistano, a circa cinquanta chilometri in linea d’aria dalla città indiana di Amristar, quella del Tempio d’Oro dei Sikh, per intenderci.
Da vedere c’è parecchio e ottimizzare il tempo è fondamentale. Si tratta di trovare un equilibrio tra il tentativo di percepire l’atmosfera di un luogo e quello di vedere i simboli della seconda città per numero di abitanti del Pakistan, dopo Karachi, e una delle trenta metropoli del pianeta.
La guida locale, Amjad che già conosco per un precedente viaggio nelle regioni del nord del Paese, è veloce, organizzata, affidabile. Non si perde tempo.
Giuseppe è l’accompagnatore proveniente dall’Italia che ama le mappe e non è un dettaglio. È colui che sapientemente ha disegnato l’itinerario e di cui ho già sperimentato la preparazione.
Così si vaga tra le stradine della città antica, in prossimità del Forte, Patrimonio Unesco e noto anche come cittadella di Shahi Qila. Sarebbe da starci ore, ma in ogni luogo in Pakistan il tempo dovrebbe dilatarsi a dismisura.
L’idea della magnificenza del passato è comunque talmente prorompente che anche solo un assaggio contribuisce a fornire una suggestione di quello che fu.
Poi c’è la gente. È curiosa, interessata ai rari visitatori stranieri presenti. È un dialogo che si innesca con estrema facilità, fatto di sguardi, di saluti e richieste di fotografie in cui tu sei presente insieme a loro. Così si rallenta e si procede guardando ovunque: un po’ l’impotente architettura Moghul, un po’ i volti di chi ti osserva e tu osservi. È uno scambio spontaneo, continuo, alla pari.
Nel pomeriggio ci attende la folla. È una sorta di pellegrinaggio simbolico quello che ogni giorno spinge tante persone a recarsi a est di Lahore dove un cancello viene chiuso al tramonto in prossimità del confine indiano.
È tifo da stadio, è una cerimonia che dalla metà di agosto del 1947 viene messa in scena quotidianamente per raccontare la geografia, la religione e la politica dell’antico Impero dell’Indo che una volta fu un unicum, senza cancelli e barriere.
Qui in tribuna, perché di quello si tratta, è un’interazione continua con le persone, sono canti, urla, animati da un nazionalismo spinto che si esprime senza reticenza. Da una parte c’è il Pakistan e dall’altra l’India.
È l’opportunità di cogliere la Storia in uno spettacolo di folla entusiasta. È un’immagine scattata con un tatuaggio verde sul viso che inneggia al Pakistan. È Pakistan Zindabad! (“Lunga Vita al Pakistan!”). Intanto, si sentono i canti e gli inni indiani poco distanti, provenienti dagli spalti “avversari”.
La cerimonia del Confine non ha mai avuto giorni di tregua, tranne una recedente e unica eccezione: 12 giorni di silenzio, quelli in cui si sono acuite le decennali “scaramucce” tra Pakistan e India in merito alla regione contesa del Kasmir.
Un viaggio aiuta a comprendere pure l’attualità e a osservarla con maggior coinvolgimento, una volta rientrati a casa.
Il giorno successivo è una Lahore ancora diversa, intrisa di muscoli tesi, pelle lucida, fango e combattimenti. Il rimando è alla lotta greco-romana.
È il Pahalawan’s Wrestling, Patrimonio Immateriale dell’Umanità. Assistervi è un privilegio. Qui i tempi sono più lenti per assaporare la preparazione degli uomini e del luogo, un piccolo campo di combattimento situato nella periferia urbana.
I protagonisti sono i lottatori kushti, eredi di una pratica diffusa in Asia durante la dinastia Moghul che dominò l’India dal 1526 al 1707. I loro allenamenti sono massacranti e la dieta incentrata su un apporto elevatissimo di proteine. A testimoniarlo, bufale enormi che producono latte per gli uomini che si esibiranno.

È la Lahore popolare che vive di tradizioni e fierezza. C’è un uomo anziano, non si sa quanti anni abbia davvero, ma è certo che sia orgoglioso di raccontare la sua storia di lottatore di wrestling. Si capisce dalla sua gestualità, da come ti guarda.
Poi ci sono i mercati, dove il tempo scorre ancora più veloce, perché come si può fare a meno di assaggiare di anacardi, di lasciarsi distrarre continuamente dalla gente e dal profumo del curry? Ti fermi, assaggi, annusi, assapori. È una piacevole digressione, possibile persino in gruppo.
In questa commistione tra genti e cultura, c’è spazio per visitare anche un museo. Il museo di Lahore è strepitoso. A renderlo famoso fu lo scrittore britannico, Rudyard Kipling, perché il padre ne fu curatore.
È un tripudio di arte Gandhara, tipica dell’omonima antica regione che oggi corrisponde al Pakistan settentrionale e all’Afghanistan orientale. È un inno all’immagine antropomorfa del Buddha e insieme una testimonianza dell’interesse reciproco tra cultura greca e indiana. Statue, oggetti, bassorilievi. La qualità dei manufatti artistici è altissima.
Lahore si conclude con la mia richiesta, accolta, di rivedere la sera uno dei suoi luoghi più iconici: la moschea.
Dopo uno sguardo a mio avviso troppo veloce, durante la giornata precedente, le luci modificano lo scenario e la moschea di Lahore, la seconda in ordine di grandezza in Pakistan e in tutta l’Asia Meridionale, risplende.
Difficile voltarle le spalle per concludere la giornata.
Mausolei, fortezze e cimiteri reali: a Multan il Punjab rivela i suoi tesori sacri
La mattina si parte, direzione Multan. Non si sosta presso il sito archeologico di Harappa perché, messa a votazione la possibilità di saltare la visita per rendere l’itinerario più snello, tutti i partecipanti del gruppo votano a favore.
A essere onesta, un po’ mi è rimasto il rammarico di non aver detto la mia e di aver rinunciato a vedere il luogo che diede vita alle prime forme di scrittura, non ancora decifrate e datate intorno al 3000 a.C.
Ma il gruppo è anche questo, accettare i compromessi. Meglio un programma più rigido o la flessibilità che talvolta ha anche qualche contro? Intanto si procede.
Multan, con la tomba di Shah Rukn-e-Alam, il mausoleo del santo sufi Sheikh Rukn-ud-Din Abul Fateh del XIV secolo, è una visione. Del resto quella adagiata sulle rive del fiume Chenab è una delle più antiche città dell'Asia, abitata ininterrottamente da millenni.
Da lì sono passati Alessandro Magno, la dinastia Moghul, i colonizzatori inglesi ed è il luogo d’elezione dei santi Sufi. Nell’aria si respira la stratificazione dei secoli.
Le pietre parlano e il santuario, uno più imponenti del subcontinente indiano, si erge poderoso.
Il deserto mi affascina da sempre e quando è un forte a innalzarsi nel nulla, l’immaginazione galoppa. La fortezza di Derawar e, siamo ancora nel Punjab, è visibile da lontano.
I suoi quaranta bastioni ricordano il Rajstan e non è affatto un caso perché il confine è di nuovo vicino e il forte è stato costruito dalla famiglia reale Bhati di Jaisalmer.
Fa caldo, parecchio, ma il clima secco rende la temperatura più sopportabile. Siamo, come sempre, gli unici turisti occidentali. Ci sono gruppi locali che ci osservano e si interrogano.
Un uomo con un turbante bianco è contento di farsi fotografe. Si mette in posa. Il suo viso è fiero, come spesso accade da queste parti.
Il cimitero reale di una dinastia abbaside (califfi musulmani medievali), situato poco distante dalla fortezza, è emozionante, al di là della mia propensione a visitare cimiteri. Ci sono petali di rose sulle tombe e le decorazioni sono raffinatissime.
Uch Sharif, “l'Alessandria sull'Indo”: il luogo da cui non vorresti mai andare via
La mattina successiva a stagliarsi nella foschia, che lo rende un’epifania, tanto attesa, quanto suggestiva, è Uch Sharif.
Conosciuta anche come “Alessandria sull’Indo”, è un insieme di monumenti funerari piastrellati di una bellezza indicibile. La sensazione è quella di trovarsi in un mondo talmente incredibile da apparire estraniante per quanto stupefacente.

Il Mausoleo di Bibi Jawindi, risalente al XV secolo, a struttura ottagonale e decorato con maioliche bianche e blu, fa da sfondo a una cartolina in cui gli attori sono prevalentemente uomini.
Hanno un’età variegata e indossano tutti lo shalwar kameez, il vestito tradizionale pakistano.
Un bambino avanza verso di me e ha un cesto contenente pane tra le mani.
Il complesso monumentale di Uch che, non avrebbe potuto che essere patrimonio UNESCO, un tempo si trovava sulle rive del fiume Indo, anche se da allora il fiume ha spostato il suo corso, e la confluenza dei due fiumi si è spostata di una trentina di chilometri a sud-ovest.
Chi vorrebbe andarsene da un posto così? Forse uno dei più suggestivi che abbia mai visto.
Bellezza, fatica ed estasi: lungo l'Indo il Sindh svela i suoi volti
Sukkur si trova nel Sindh. Sikkur è un ponte gigantesco sul fiume Indo. Che potenza quel fiume! Lo osservo dall’alto, dal Landsdowne Bridge, una delle grandi opere ingegneristiche del XIX secolo, il ponte a sbalzo più lungo mai costruito, in grado di sostenere il carico di pesanti locomotive a vapore.
Il ponte fu inaugurato il 25 marzo 1889. Ma un conto è guardarlo dall’alto, un altro è navigarci sopra l’Indo, anche se per pochi istanti. Accade per accedere all’isolotto Sadhubela dove sorge un tempio induista.
Pochi sanno che quel luogo per gli Indu era sacro a tal punto da competere con le rive del Gange per accogliere il più grande raduno dell’umanità, quello che a Prayagraj (alla confluenza dell’Indo, della Yamuna e del mitologico Saraiwati), è stato nel 2025 il più gigantesco Kumbh Mela di sempre.
Da lontano, intanto, fanno capolino i delfini dell’Indo. No, non era un movimento del fiume. Sono uno e poi un altro ancora. Fanno capolino, scompaiono e riappaiono. Intanto il sole tramonta.
Sulla strada si svolge la vita. Ce ne si accorge di continuo nel corso delle lunghe ore di trasferimento. Talvolta ci si ferma grazie alla solerzia dell’autista (gli autisti meriterebbero un capitolo a sé, quanto dipende da loro la buona riuscita del viaggio e il “portarsi a casa la pelle”!), della guida locale e del nostro accompagnatore.
Così accade di assistere a pezzi di vita di tutti i giorni. Sono il lavoro, durissimo talvolta, l’impegno, la fatica e il sudore, i protagonisti indussi delle scene a cui assistiamo. Sono piantagioni di banane di un verde abbagliante, camion da caricare di fieno, coloratissimi e giganteschi, che diventano stracolmi alla velocità della luce.
Intanto fa un caldo immane. Sono la lavorazione della canna da zucchero e il lavoro disumano delle fornaci di mattoni.
Ciò che si vede non è affatto divertente. È occupazione minorile e donne che faticano come bestie da soma.
Il mercato degli animali fa un altro effetto. Appannaggio unicamente di maschi, è un contrattare continuo. Voci, urla, gesti, gente, colori, capretti, galline, pecore.
Ma quanto sono belle le donne di etnia Sindhi? Le osserviamo passare insieme a mandrie di pecore e mucche lungo la strada che costeggia l’Indo.

Intanto ci dirigiamo verso un luogo che già solo all’idea di metterci i piedi, fa venire i brividi.
Mohenjo-daro, letteralmente “altura dei morti”, fu una delle più importanti città del mondo antico e centro principale della Civiltà dell’Indo e di una civiltà vallinda raffinatissima, misteriosamente scomparsa.
In gioco c’è di nuovo la potenza del fiume che permise a questa civiltà del III millennio a.C. di commerciare con la Mesopotamia, di importare pietre preziose dall’Afghanistan, legno di cedro dall’Himalaya e conchiglie dal Mar Arabico.
Quando la visitò nel 1946, Jawaharlal Nehru che non era ancora primo ministro dell’India, ne rimase folgorato. “Com’era possibile una civiltà così avanzata e sopperente? Quale il suo segreto?”
Ci sono ancora in Pakistan, anche se ne sono rimasti pochi, i barcaioli dell’Indo. Sono i Mohanas. Le loro origini sono così antiche che gli storici e gli antropologi le hanno fatte risalire alle civiltà fluviali di 5000 anni fa.
È un popolo dal fenotipo dravidico, come gli abitanti dell'India meridionale. I Mohanas, dalla carnagione scura e i capelli nero pece, vivono su imbarcazioni di legno simili a quelle incise sui sigilli rinvenuti a Mohenjo-daro. Incontrarli, sul lago Machar e condividere del tempo con loro in barca è stata un’esperienza unica, probabilmente irripetibile. Quanto sopravviveranno questi pescatori ancestrali?
Il loro ecosistema sta scomparendo a causa dei cambiamenti climatici e una diga, costruita una settantina di anni fa, aveva già modificato e accorciato il loro percorso sull’acqua, allottando molti di loro da quella pesca, a tu per tu con gli aironi cenerini, che tanto li caratterizza.
Partecipare a un rito Sufi in Pakistan è restare lì fermi a osservare.
C’è una donna in estasi, una ragazza che si muove in maniera apparentemente incontrollata con lunghissimi capelli neri che assecondano il ritmo di quel moto vorticoso, c’è una donna sdraiata che sembra dormire, c’è un santone che ti scruta, fedeli che si muovono in massa, coinvolti e coinvolgenti.
È un tripudio di suoni, colori, gesti.
Esserci nel santuario Sufi più venerato di tutto il Paese, Lal Shahbaz Qalandar di Sehwan Sharif, è farsi travolgere da immobili. È osservare quell’orda di pellegrini che arrivano da ovunque. È una religiosità per noi sconosciuta e lontana, talvolta caotica, a tratti mistica e intimista.
Proseguendo verso sud, al di là delle numerose digressioni che comprendono villaggi, santuari e un forte, come quello di Ranikot Fort, che si ritiene il più grande forte del mondo con una circonferenza di circa 32 chilometri, si arriva in una necropoli unica al mondo.
È quella di Makli, Patrimonio Unesco. Qui sono state conservate migliaia di tombe di sovrani che si sono succeduti in questa regione dal XII al XVIII secolo, insieme a sepolcri di numerosi letterati e mistici Sufi.
È l’eccezionale testamento della civiltà Sindhi. L’architettura funeraria è una sintesi di influenze musulmane, indù, persiane, moghul. Ci sono minareti sormontati da motivi floreali. Le decorazioni delle tombe tolgono il fiato: raccontano le storie di chi ci è sepolto con una maestria e una raffinatezza inimmaginabili.
Volti e rocce che riassumono i secoli: il Balochistan più temuto che riesce a commuovere
L’ingresso nella regione del Balochistan, una delle più temute del Pakistan a causa dei frequenti scontri armati tra esercito e gruppi tribali e atti di terrorismo, rende la scorta, già presente a tratti lungo tutto l’itinerario, più pressante.
Tanti uomini che ci precedono e seguono e più macchine che ci sorvegliano. L’Iran non è lontano.
Il Paesaggio cambia in questa vasta provincia del Pakistan che occupa più del 40% del territorio del Paese.
Quello che si vede dal finestrino diventa via via sempre più interessante e coinvolgente.
In Balochistan c’è il Parco Hingol, il più grande parco nazionale del Pakistan, situato nella regione costiera di Makran, a circa duecento chilometri da Karachi.
È un territorio ricco di meraviglie geologiche scolpite nella roccia che spesso assumono forme antropomorfe. C’è addirittura una Sfinge. L’insieme evoca, a tratti, la natura ruvida del Ladakh. Le rocce cambiano continuamente colore.
Ci si ferma talvolta e si scende dal pulmino per assaporare valli spoglie e guglie che svettano. È un paesaggio commovente nella sua essenzialità. Così come lo è anche il golfo di Kund Malir. È Mar Arabico, attorniato dai monti. È silenzio e passeggiate infinite.
Com’è la gente del Balochistan?
Un mix culturale di etnie che arrivavano da ovunque, soprattutto da est e persino dalla regione sub sahariana, sono i Makrani dalla pelle scura. Ci sono i Baloch, i Pashtun, i Brahui, gli Hazara, i Sindhi e i Punjabi. Nomi evocativi di luoghi di incontro e di scontro.
Del resto il Balochistan è abitato dall’uomo sin dall’età della pietra e nei millenni successivi era attraversato da una via commerciale che dalla Valle dell’Indo giungeva fino alla Mesopotamia. Basta guadare i volti, antichissimi. Ci sono facce che sembrano più antiche di altre? In Pakistan i volti riassumono la stratificazione delle epoche.
In Balochistan poi c’erano pure gli Indù e alcuni sono rimasti. Si trovano soprattutto a Nani Mandir, un posto che sembra India all’ennesima potenza. C’è persino una caverna di montagna sulle rive del fiume Hingol.
Arrivano a centinaia in questo luogo. Qui in primavera si svolge il più grande pellegrinaggio indù del Pakistan. Il profumo dell’incenso è fortissimo. E si mescola a quello dei “samosa”. Il resto sono colori, colori e il solito rumoroso e accattivante caos.
Il saluto alla complessità: la gigantesca Karachi tra contraddizioni e bilanci di viaggio
Karachi è la fine del viaggio. Ha un Museo Nazionale di tutto rispetto. Per il resto è una città sporca, povera e in cui la stratificazione sociale risulta evidentissima, già a una prima occhiata.
Sorge gigantesca, è una delle più grandi città del pianeta, in prossimità del delta dell’Indo.
La spiaggia enorme, che si affaccia sul Mar Arabico, è proporzionale alle dimensioni della metropoli, è un punto di incontro di chi la abita.
È un saluto alla complessità di un Paese che meriterebbe infiniti ritorni.
Questo viaggio è un assaggio, molto ben articolato, di quello che è la parte meridionale di uno dei luoghi in cui gli esseri umani hanno raccontato meglio sé stessi sin da tempi lontanissimi.
È un pezzo di mondo che vale davvero la pena conoscere.
Paola Scaccabarozzi - giornalista professionista
"Il momento che non dimenticherò mai"
Seduta in barca tra i pescatori Mohanas, con il vento del lago Machar sul viso e lo sguardo di un airone in volo. Un frammento di eternità, un ritorno alle origini. È stato lì che ho pensato: "Vorrei essere ancora qui."
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